In Italia capita sempre più frequentemente di ascoltare (sia nelle istituzioni dove lavoriamo, ma anche per radio e televisione) famiglie con figli autistici che denunciano il fatto che dopo i 18 anni gli autistici diventano dei fantasmi: scompaiono!

Terminata la presa in carico da parte dei Servizi di Neuropsichiatria Infantile, che spesso hanno seguito i loro figli dai primi “segnali strani” e via via per diversi anni, il passaggio all’età adulta è traumatico. Prima di tutto per la questione della presa in carico. Dal momento che l’autismo è ormai “catalogato” come “disabilità” i servizi di psichiatria degli adulti, logico prosieguo della presa in carico precedente da parte della Neuropsichiatria Infantile, non vogliono occuparsene perché la disabilità – affermano – non è di loro competenza. Dall’altro lato, i servizi sociali deputati a seguire la disabilità si dichiarano impreparati seguire i casi di autismo, soprattutto ove siano ancora presenti agiti auto o etero-aggressivi, problematiche comportamentali di vario genere (che spesso richiedono una terapia farmacologica adeguata), crisi epilettiche di non sempre facile soluzione… Si assiste quindi ad un rimbalzo di competenze e responsabilità che spesso dura diversi anni e durante il quale le famiglie rimangono sole a gestire la situazione o, nei casi più gravi ove sia già stato attuato precedentemente un inserimento in una comunità o un centro diurno per minori, la loro permanenza viene prolungata fino al limite estremo consentito dalla Legge (21 anni).

Eppure le famiglie non smettono di denunciare tale situazione che già il rapporto del CENSIS (Centro Studi Investimenti Sociali) del 2012 dal titolo “La dimensione nascosta delle disabilità” aveva ben messo in evidenza.

In questo rapporto “una sezione del questionario è stata dedicata alle prospettive e alle opinioni dei rispondenti sul possibile assetto di vita dei loro figli in un futuro in cui loro non potranno più occuparsene. Complessivamente poco più di un terzo del campione (34,6%) indica di non pensarci e di non avere in mente una soluzione ad un problema evidentemente angosciante: si tratta di una quota che chiaramente è più alta tra i genitori di bambini più piccoli (il 50,0%), ma che rimane significativa anche laddove si tratta di adulti (22,8%). Più in generale, quanto più le persone con autismo sono prossime all’età adulta, tanto più i rispondenti tendono a indicare una soluzione protetta o semi protetta di piccolo gruppo (complessivamente è il 29,8% a fornire questa risposta, ma che raggiunge il 45,6% tra gli adulti), e similmente aumentano vistosamente le indicazioni per una struttura residenziale tipo istituto (in tutto è il 4,8% ad indicarla, che raggiunge però il 14,0% tra gli adulti).”

A fronte di questa situazione largamente diffusa una Legge dello stato italiano del 2015 (n. 134) all’articolo 3 prevederebbe “l’incentivazione di progetti dedicati alla formazione e al sostegno delle famiglie che hanno in carico persone con disturbi dello spettro autistico; la disponibilità sul territorio di strutture semiresidenziali e residenziali accreditate, pubbliche e private, con competenze specifiche sui disturbi dello spettro autistico in grado di effettuare la presa in carico di soggetti minori, adolescenti e adulti; la promozione di progetti finalizzati all’inserimento lavorativo di soggetti adulti con disturbi dello spettro autistico, che ne valorizzino le capacita”. Ma per ora tutto questo rimane solo sulla carta. Poche sono le strutture pubbliche diurne o residenziali per autistici adulti. La maggior parte del poco che esiste è frutto della collaborazione tra genitori che, armati di buona volontà, creano delle associazioni con cui aiutarsi a gestire almeno una parte del tempo e delle difficoltà inerenti al fatto di avere un figlio autistico di cui nessuno si fa più carico e con cui confrontarsi su chi tra i vari “esperti” interpellati da ciascuno possa dare delle valide risposte alle diverse problematiche che l’ingresso nella vita adulta dei loro figli comporta (dagli aspetti farmacologici, a quelli emotivi e comportamentali, senza dimenticare quelli sessuali).

Cosa c’è di singolare in una istituzione che lavora con soggetti autistici e che è orienta dalla psicanalisi?

Una istituzione che lavora con soggetti autistici e che sia orientata dalla psicoanalisi lacaniana è una istituzione che ha il suo principio ispiratore nell’ascolto, quindi nell’accoglienza, sebbene spesso i soggetti non parlino o parlino poco. Accoglienza che si gioca su una duplice dimensione.

Da un lato quella organizzativa, in quanto cerca di conformarsi alle esigenze della struttura autistica e quindi attenta il più possibile a predisporre un ambiente ed una organizzazione degli spazi e del tempo corrispondenti alle quanto sappiamo aiutare gli autistici a stare bene. Da questo punto di vista le loro testimonianze scritte e i diversi studi sulla percezione, sulle soglie di sensibilità, sulla memoria iconica… ci sono molto utili.

Ma, soprattutto, è dal lato clinico ed etico che si nota la vera differenza, perché una istituzione che sia orientata dalla psicoanalisi accoglie la singolarità del soggetto dando valore alle produzioni sintomatiche con cui ciascun autistico ha fatto fronte alla sua situazione, dando ad esse valore e articolandole in modo che possano diventare una risorsa, anziché un “disturbo”.

Solo questa accoglienza preliminare e senza pregiudizi che trae la sua forza dall’etica della psicoanalisi può pacificare il soggetto, riducendone le stereotipie e facendo sì che si lasci condurre nell’elaborazione della sua lingua privata fino ad accettare di entrare, grazie ad essa, in relazione con gli altri.